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Trauma e perdono

titolo Trauma e perdono
sottotitolo Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale
autore Clara Mucci
editore Raffaello Cortina Editore
pubblicazione 2014
ISBN 9788860306760

Recensione di Ermelinda Di Ianni

Sono due i tipi di trauma analizzati e approfonditi nel libro Trauma e perdono (Clara Mucci, Raffaello Cortina Editore, 2014): il trauma relazionale precoce, causato da una situazione traumatica continuativa nel tempo, e i traumi massivi, come i genocidi e la Shoah. Tali traumi sono accomunati dal fatto che avvengono per responsabilità umana ed hanno conseguenze più gravi dei traumi dovuti a disastri naturali. L’obiettivo del testo, articolato in quattro sezioni, è mostrare cosa accade nell’individuo, nelle generazioni successive e nella società a seguito di questi tipi di trauma e il vertice da cui l’autrice sviluppa questi temi è quello della psicoanalisi relazionale, in cui è considerato primario il bisogno di relazione e sicurezza; e l’effetto del trauma è la rottura del legame io-tu. In questo contesto viene valorizzato il lavoro di Ferenczi: quest’ultimo, a differenza di Freud che del trauma considerava primariamente l’elemento fantasmatico, era molto colpito dai traumi reali di cui erano rimasti vittima molti suoi pazienti, in particolare nelle situazioni di abuso. Il bambino aggredito sessualmente “rende l’anima”, dice Ferenczi, reagisce identificandosi per paura con l’aggressore e introiettandolo. Si produce così una confusione tra sé e l’altro e ciò implica l’impossibilità di accertare la verità. Il bambino sopravvive, sì, ma solo fisicamente. Compito dell’analisi è, secondo Ferenczi, lavorare per recuperare il ricordo, confinato in una dimensione scissa, per portarlo in uno spazio empatico dove il reale può trovare il suo posto e giungere alla rappresentazione verbale. L’evento traumatico sembra avere le proprietà di un oggetto straniero non assorbito, che può erompere parzialmente nei sogni o attraverso flashback e immagini che ritornano ossessivamente, ma sganciate dal contesto. L’Autrice sostiene che, nel caso di pazienti gravemente traumatizzati, la questione teorica della verità fantasmatica deve recedere sullo sfondo e la verità storica va ricostruita attentamente e con tatto, con tutti i correlati fisici, entro l’appropriata cornice temporale e con un procedimento che avviene per cicli. Nel trauma i legami libidici con le connessioni associative, così come con l’oggetto interno e se stessi, sono sospesi ed è per questo che non è possibile rappresentarli a se stessi e poi raccontare la propria storia. La vittima, per difendersi dagli orrori della mancanza di oggetto, si è identificata con l’unico oggetto disponibile, il persecutore, un oggetto cattivo. La ricostruzione del fatto reale, comunque, non può aver luogo senza una ricostruzione del legame emotivo dentro la relazione con un altro essere che permette l’integrazione degli affetti e dei significati connessi all’evento traumatico. L’alleanza tra terapeuta e paziente, presupposto per questo tipo di lavoro, è più difficile da stabilire se il paziente ha costruito con le figure parentali un attaccamento insicuro o disorganizzato. Quindi un nuovo modello di relazione con l’altro deve essere sperimentato nel rapporto terapeutico, anzitutto a livello preverbale. Si è accennato prima alla dissociazione: quando la mente fronteggia l’orrore, il funzionamento psichico crolla, le funzioni affettive e cognitive sono devastate, insieme alla capacità di simbolizzare l’esperienza. La mente ricorre ai processi dissociativi come meccanismi di chiusura per proteggere la coscienza dall’inondazione di angoscia e da dolori insopportabili. Ad esempio, nel trauma relazionale infantile, il bambino si mette in una posizione di ritiro (“rende l’anima”) che lo fa diventare invisibile, in una specie di passività ipometabolica dove le funzioni fisiologiche rallentano: studi recenti mostrano come in questo quadro si evidenzino alterazioni dell’emisfero destro del cervello. Quest’ultimo è considerato come il substrato biologico dell’inconscio umano ed è implicato sia nella regolazione degli affetti che nel mantenimento di un coerente senso del sé e del proprio corpo. Stati dissociativi possono ritornare in terapia, quando il contatto con un altro potenzialmente buono e disponibile può essere all’inizio vissuto con ansia per il timore di una perdita o con avversione e paura, distacco e diffidenza. Per questo al terapeuta sono necessari estremo tatto, empatia e massima cautela circa i tempi del trattamento. L’Autrice ricorda che, come ormai dimostrato da vari studi, è la comunicazione tra i due emisferi destri – quindi una comunicazione preverbale che passa per la voce, lo sguardo, le posture – ad essere essenziale per giungere a stabilire un canale affettivo per il contenimento delle emozioni negative in un ambiente prevedibile e rassicurante. La posizione del terapeuta in questa fase, lungi dall’essere interpretativa, è quella di una ricettività non intrusiva, come l’acqua che sostiene il nuotatore nella felice metafora di Balint. Non più imprigionato nel mondo senza parole del trauma e posto in un ambiente dove c’è un altro empaticamente disponibile all’ascolto, il paziente scopre che esiste un linguaggio per la propria esperienza. In questa fase può essere addirittura utile ed opportuno dare informazioni al paziente su cosa aspettarsi in termini di effetti e sintomi o parlare dell’utilità dei farmaci per ridurre l’ansia, che può essere massiccia. Ciò che si richiede inizialmente nella terapia è la ristrutturazione del legame tra sé e l’altro, mentre lo stato traumatico, che ancora non può essere rappresentato, non verrebbe modificato dall’interpretazione. Superata la fase iniziale, gli enactment rappresentano un primo passo per rendere pensabili le dinamiche del passato. L’enactment è un’azione che si esprime in un evento diadico e può assumere varie forme (ad esempio modificazioni del setting, scambi di gesti affettuosi), un fenomeno intrapsichico recitato sul piano interpersonale. Il terapeuta rivive gli stati traumatici del paziente per poi fungere da regolatore emotivo. Se il terapeuta si spaventa e si difende, l’enactment rimane una ripetizione cieca di una relazione oggettuale patologica. Il lavoro si basa su cicli di rottura e riparazione del legame di attaccamento entro una cornice in cui aumenta la sicurezza personale. L’obiettivo è quello di ricostruire l’interezza degli eventi vissuti (memorie traumatiche), di associare le componenti frammentate (emotiva, sensoriale, motoria, cinestesica, cognitiva) e permetterne l’integrazione nella narrazione autobiografica del paziente. L’integrazione (della perdita, del trauma, del dolore) e un nuovo senso di riparazione e ricostruzione vengono dalle parole usate per dare un nome ai vissuti corporei ed emotivi e dai sogni, nonché dalle esperienze fisiche di recuperata vitalità. La mente costruisce modelli a partire dalla sua esperienza. Il nuovo evento, e quindi anche l’esperienza psicoterapeutica, ha il potenziale di provocare una risposta, la ripetizione di una risposta dissociativa nei pazienti traumatizzati, o di riscrivere una traccia diversa nell’esperienza di vita. I sogni, rispetto ai ricordi traumatici che irrompono come frammenti di immagini, colori o suoni, rappresentano già un primo passo verso la simbolizzazione. Quest’ultima, però, non può avere luogo senza un dialogo interno o un processo comunicativo e questo legame è proprio quello che il trauma ha distrutto. Si arriva a conoscere la propria storia solo con il dirla a se stessi, a un “tu” interno. Ma questo nel paziente traumatizzato può accadere solo se si ripristina il legame comunicativo con l’altro, testimone empatico a cui consegnare la propria storia. Nel traumatizzato, a livello intrapsichico, non c’è più un altro interno su cui contare. Questa disperazione interna diventa un’incapacità a comunicare con gli altri e anche con se stessi per riflettere sulla propria esperienza. In sostanza, se non c’è più un altro a cui dire “tu”, nella speranza di essere ascoltato, non si possono raccontare le atrocità del trauma neppure a se stessi e, quando la propria storia è abolita, cessa di esistere anche la propria identità. La testimonianza contribuisce a rompere questo patto con il silenzio, all’interno e all’esterno del sopravvissuto al trauma, ed è anche un processo, un modo per far fronte alla perdita. Come l’analisi riuscita equivale ad una nascita, così nella testimonianza il sopravvissuto può tornare dall’esilio in cui il trauma lo aveva confinato. È ancora questo il portato per sempre trasgressivo della psicoanalisi come pratica di verità.
Dopo aver approfondito il tema della terapia con i pazienti traumatizzati, l’Autrice si occupa della trasmissione intergenerazionale del trauma, riportando gli esiti di molti studi sulla Shoah, che, in quanto evento traumatico abbastanza lontano nel tempo, consente di poter osservare gli effetti del trauma fino alla terza generazione. Già nel 1913 in Totem e tabù Freud parlava di ereditarietà di alcune disposizioni psichiche scrivendo che “può essere riuscito a generazioni successive di fare propria l’eredità emotiva delle generazioni precedenti”. Nella prima generazione di sopravvissuti alla Shoah, il sopravvissuto deve fare i conti con alcune tematiche psicologiche: lo stigma della morte, che implica l’intrusione di un’immagine di minaccia alla vita in grado di rompere il necessario senso di invulnerabilità magica che i vivi portano dentro di sé; la colpa di essere vivi al posto di un altro e nel contempo l’insopportabile gioia ed eccitazione per il fatto di essere sopravvissuti; l’ottundimento psichico ed affettivo che può giungere fino alla forma estrema del ritiro psichico; le difficoltà nelle relazioni dovute al tentativo di proteggersi da nuove perdite. L’interessante studio di H. Kristal, egli stesso un sopravvissuto, sviluppatosi da una ricerca su pazienti traumatizzati con follow-up a distanza di 10 anni, ha evidenziato che i disturbi rimangono sempre gli stessi: depressione, disturbi del sonno, sogni traumatici ricorrenti, dolore e ansia cronici. All’arrivo dell’età anziana, per i sopravvissuti subentrano altri problemi: la vecchiaia impone che uno accetti se stesso e il proprio passato invece che continuare a rifiutarlo con rabbia. Se non si è potuto elaborare il lutto, se si permane in un quadro psichico caratterizzato da alessitimia e anedonia, i sopravvissuti tenderanno ad un invecchiamento precoce e si registrano tassi di morte più alti della media. La dolorosa separazione dagli oggetti perduti è ciò che la seconda generazione si incarica di prendere su di sé. Quindi nei membri della seconda generazione che chiedono aiuto possono manifestarsi disturbi come il falso sé, disturbi narcisistici, sindromi borderline, patologie schizoidi; oppure vi è la scelta di una professione di aiuto. Gli studi sulla seconda generazione hanno mostrato che i figli adolescenti di sopravvissuti alla Shoah mostravano un bisogno eccessivo di reprimere l’aggressività e il senso di ribellione tipici di questa fase ed assumono un ruolo volto a ripagare i genitori delle perdite precedenti. Si può ipotizzare che la traumatizzazione della seconda generazione sia dovuta al fatto che la mancanza di sensazioni della madre rende difficile svolgere i compiti materni con sensibilità e sollecitudine; sarà quindi il bambino a cercare di empatizzare con lei con notevole stress psichico e fisico. Questi figli sono i cosiddetti “figli della sostituzione”: ci sarà sempre qualcuno che vede in loro qualcun altro. È una forma di ripetizione che priva il figlio della libertà e lo condanna ad una sorta di destino. Alcuni disturbi e sintomi che sembravano psicotici possono essere letti come parti di storie cancellate dai genitori. Si rileva inoltre una sorta di concretismo del linguaggio e la mancanza di uso della fantasia: le condizioni atroci dei campi di concentramento hanno danneggiato la capacità dell’Io di pensare simbolicamente e metaforicamente, generando il concretismo senza tempo nel funzionamento psichico della seconda generazione. Nella terapia si promuoverà un passaggio dal concretismo al funzionamento metaforico passando per una fase di comune accettazione della realtà dell’Olocausto. I figli si trovano a reagire inconsapevolmente ad uno scenario che appartiene alla storia familiare senza avervi mai preso parte e i sintomi sono eco del “discorso” del genitore, anche quando questo discorso è fatto di silenzio su quanto vissuto. Quando questi figli incontrano traumi nelle loro vite, tendono a reagire secondo immagini interiori, minacce mentali e terrori che appartengono ad un passato non loro. Quando si attivano questi enactment, il terapeuta può cogliere in queste reazioni un’opportunità: la momentanea disregolazione e rottura tra paziente e terapeuta, se seguita dalla riparazione, può rappresentare l’occasione per un movimento in avanti della cura. Il figlio del sopravvissuto, quindi, grazie al suo ruolo di ascoltatore empatico, soffre una traumatizzazione vicaria. Perfino i sogni del paziente di seconda generazione (i figli che sognano i sogni dei propri genitori) sono da considerare come una riattivazione per via fantasmatica del trauma stesso e al contempo, in quanto sogni, manifestano forme di rielaborazione del trauma. La difficoltà in terapia consiste nel districare il genitore interno dal figlio. La traccia dell’esperienza traumatica nel figlio può essere mediata dall’immaginazione e pertanto divenire accessibile all’interpretazione psicoanalitica. L’Autrice riporta anche gli studi sugli effetti della Shoah sulla terza generazione. Anche se i risultati dei vari studi non concordano, si può comunque ipotizzare che, mentre la seconda generazione subisce una traumatizzazione fantasmatica, nella terza, qualora non vi sia stata risoluzione in precedenza, l’elaborazione del trauma è forclusa e possono manifestarsi sintomi più gravi. Fonagy, nella sua ricerca, aggiunge un altro elemento interessante, collegando la traumatizzazione con l’attaccamento: il caregiver che presenta un lutto non risolto può avere problemi nello stabilire una buona relazione con il bambino e causare un attaccamento disorganizzato. Quest’ultimo si esprime in un comportamento evitante ed ipercontrollante e le fantasie traumatiche inconsce trasmesse alla terza generazione formano un nucleo dissociato. La tecnica appropriata consiste nel rendere accessibili e poi esprimibili affetti e sentimenti (disperatamente dissociati) nella cornice calda e rassicurante del setting dove poter costruire una nuova relazione di attaccamento. Al termine del libro, l’Autrice approfondisce il tema delle risorse che consentono di andare “al di là del trauma”. Partendo dal presupposto che la forza del legame sia ciò che protegge il soggetto dal perire psichicamente in un’esperienza estrema come il trauma, la Mucci sostiene che il recupero ha a che fare con la ricostruzione del legame interno tra sé e l’altro. La relazionalità (connectedness), quindi la possibilità di fare appello ad un “noi”, l’empatia e l’avere consolidato uno stile di attaccamento sicuro rendono possibile tale percorso. Viene inserito anche lo spinoso concetto del perdono, da intendersi però come il segno che un profondo lavoro sul sé è stato compiuto, il lutto è stato elaborato, profondi livelli di riparazione sono stati effettuati (integrazione delle proprie parti interne scisse tra vittima e persecutore), l’apertura e la speranza del soggetto nel futuro e nell’umanità in generale sono state ripristinate e sono stati abbandonati i desideri di vendetta e rivendicazione. Il perdono è la prova che il sé è andato oltre il tormento dell’essere in balia del persecutore. Il perdono di cui parla l’Autrice ha sì una dimensione intersoggettiva, ma non è richiesta, necessaria e a volte nemmeno pensabile la relazione con il colpevole. Inoltre non cancella la consapevolezza del male subito, ma libera la vittima dal legame con il passato. In estrema sintesi, dopo la ricostruzione del legame con l’altro, il passo successivo per il paziente è mettere in parole la propria esperienza, poi avviene la riconnessione di affetti inconsci e dissociati, in una fase che conduce dall’intrapsichico al relazionale, grazie ad un terapeuta empaticamente presente. Al contempo, il paziente imparerà a lasciar andare il piacere sadico del rimanere ancorato alla propria rabbia e all’esercizio illusorio del controllo sull’altro (persecutore o persecutore internalizzato), superando un senso di impotenza che sarà rimpiazzato da un senso di libera volontà e di agency.

L’orecchio dell’analista e l’occhio del critico

  
titolo  L’orecchio dell’analista e l’occhio del critico.
sottotitolo  Ripensare psicoanalisi e letteratura
autori  Benjamin e Thomas Ogden,

Traduzione di: C. Casnati, B. Doninelli

editore  CIS Editore
pubblicazione  2013
ISBN  978-88-85758-84-1

Recensione di Francesco Piermattei

Tra i vari meriti di questo libro credo che sicuramente due ne debbano essere messi in evidenza: il primo è quello di descrivere con attenzione quello che è il metodo di T. Ogden di approccio alla letteratura, partendo dai vertici dell’intersoggettività e della teoria del terzo analitico, il secondo quello di risottolineare l’importanza fondamentale che la narrazione letteraria ha per la psicoanalisi, attraverso il tentativo di aprire una discussione con il mondo della letteratura e della critica letteraria sulla differenza tra il tipo di contributi che possono dare gli psicoanalisti rispetto ai letterati per la comprensione e fruizione dei testi letterari.
Un consiglio prima di accingersi alla lettura di questo lavoro è quello di tenerne ben presente la struttura che è piuttosto eterogenea e che potrebbe comunicare un certo senso di dispersività. Il libro consiste infatti nell’analisi e nel confronto di tre preesistenti saggi già pubblicati dagli autori: il saggio di Thomas Ogden relativo ad una poesia di Robert Frost “Never Again Would Birds’Song Be The Same” ( Mai più il canto degli uccelli sarebbe stato lo stesso)1 , un altro saggio di Thomas Ogden su “Un artista del digiuno” di Franz Kafka ed un saggio di Benjamin Ogden su “Lo scrittore fantasma” di P. Roth. I tre saggi si trovano in appendice al libro, i due racconti di Roth e Kafka ovviamente no. Non credo si possa fare a meno di leggere i testi letterari ed i relativi saggi prima dei tre capitoli su di essi che compongono il libro vero e proprio.
Come gli autori ci dicono nell’introduzione, il libro è il risultato di parecchi lunghi colloqui tra i due autori: Thomas Ogden, lo psicoanalista che tutti conosciamo e Benjamin Ogden, suo figlio, studioso di letteratura ed autore di diversi saggi. Le differenti opinioni degli autori, a detta degli stessi, non sempre sono state indenni da conflittualità, pur risultando reciprocamente stimolanti.
L’ipotesi centrale del libro è quella suggerita dal titolo, è cioè che le diverse competenze analitica e letteraria possano essere riportate ad una diversa proposizione sensoriale, l’udito per l’analista e la vista per il critico. Da qui si procede nel tentativo di elaborare una sistematizzazione dei differenti approcci.
La prima domanda che B. Hogden si pone è: perché i due scritti di T. Hogden su Frost e su Kafka sono del tutto diversi da ciò che si può trovare pubblicato su una rivista accademica letteraria? E come mai, pur non facendo ricorso a categorie psicoanalitiche sembravano comunque molto psicoanalitici? Questa domanda permette subito di entrare nel suggestivo modo (intersoggettivo) di leggere psicoanaliticamente la letteratura di T. Hogden. Egli evita accuratamente di fare riferimento a concetti teorici o clinici psicoanalitici ed analizza anche poco i contenuti della prosa. Si concentra invece sul “suono” e sulla “voce” letteraria dello scritto che, secondo gli autori: “ha la sua origine, crediamo, nel come gli analisti praticanti sono in sintonia con la voce del paziente e con la propria in un modo che è unico per la pratica della psicoanalisi”. Cito ancora: “Nella situazione analitica analista e paziente sono impegnati nello sforzo di parlare l’uno all’altro in un modo che sia adeguato al compito di creare/trasmettere un senso di ciò che per il paziente significa essere vivo….Il linguaggio non è semplicemente un mezzo per l’espressione del sé esso è parte integrante della creazione del sé”. Credo che quando Ogden parla di “linguaggio” o “suono” o “voce” che trasmettono stati d’animo o senso delle cose intenda, anche se non lo esplicita mai chiaramente, l’insieme di toni, timbri, volume, pause, cadenze dei contenuti del discorso che comunicano l’intensità emotiva dei concetti oltre le parole stesse e creano un insieme che è sempre unico e singolare di ogni comunicazione. Il cercare un contatto sintonizzandosi con tutto questo insieme, sembra ciò che Ogden definisce “pensare a” o “essere con” il paziente, insomma il suo modo di vivere insieme il comune momento presente, cercando di costruire insieme nuovi sensi e significati.
Un esempio molto bello è quello del paziente “signor C”, il quale dopo tanta sofferenza porta un sogno finalmente elaborativo di leggerezza e serenità rispetto al quale Ogden risponde, con una certa enfasi: “che sogno meraviglioso è stato questo”, privilegiando la sottolineatura dell’amore e della bellezza che il paziente aveva sperimentato e riportato nell’analisi, piuttosto che una dimensione interpretativa delle dinamiche oniriche. Ed è questo stesso tipo di atteggiamento che Ogden cerca di utilizzare nei commenti letterari. I due autori sono d’accordo infatti che spesso, in psicoanalisi come in critica letteraria, si usano “concetti psicoanalitici per decodificare o spiegare un testo in una modalità prevedibile e stereotipata, riducendo così la psicoanalisi ad un insieme di applicazioni inflessibili”.
Nella poesia di Frost2 T. Hogden cerca di entrare intimamente nel vissuto del protagonista della poesia così come in quello del narratore, cercando di rispecchiarcisi, dandoci così un esempio “poetico” di quello che dovrebbe essere la clinica psicoanalitica secondo lui: far sentire all’altro riflessi indelebili della sua voce nella propria! Proprio come gli uccelli del giardino dell’Eden, avendo ascoltato tutto il giorno la voce di Eva avevano internalizzato (sovrasuono) il suono della sua voce nel loro canto. Solo a questo punto l’autore si permette anche una valutazione “interpretativa” del bisogno del poeta che sembra quello di preservare nelle sue parole le voci delle persone che ha amato, delle poesie che l’hanno preceduto, le voci ancestrali dalle quali egli stesso proviene, interpretando chiaramente infine anche un’angoscia di morte : ”è impossibile non udire il desiderio inespresso del narratore che la sua propria voce possa trovare una creatura vivente in cui persistere dopo la morte”.
Così come spesso succede agli analisti che, mentre leggono qualcosa o vivono un’esperienza vanno al pensiero dei loro pazienti, Ogden torna al sig. C. pensando che la sua frase “che sogno meraviglioso è stato questo” possa avere aggiunto un sovrasuono al pensiero del sig. C. che non andrà mai perso. ( cosa che, in genere, probabilmente, conforta l’analista sia per il fatto che il paziente termina l’analisi con una buona introiezione di un oggetto protettivo analitico che per il fatto di sentirsi esso stesso di persistere ed esistere nel tempo nella mente del paziente dopo la propria “morte –termine dell’analisi”).
Ritornando al problema dell’applicazione rigida di concetti teorici alla letteratura bisogna comunque evidenziare che non si sta parlando di una condizione empatica contrapposta alle teorie come sembrerebbe in un primo momento, ma di una condizione di contatto emotivo necessariamente propedeutica alla definizione interpretativa, che può diventare stereotipata e saturante senza questo passaggio. Questo punto credo non sia stato sufficientemente chiarito nel libro. Nel caso del Sig. C la frase “che sogno meraviglioso è stato questo” è proposta dopo tanto lavoro clinico -interpretativo e non- con il paziente ed è, in fondo, una efficace ricapitolazione di questo lavoro analitico piuttosto che una estetica forma di ammirazione seduttiva per il paziente. In fondo la potremmo considerare una meta-interpretazione, cioè un’interpretazione che ricapitola, in poche parole di grande efficacia, tutte quelle precedenti. Sicuramente ogden non l’avrebbe mai proposta per un sogno portato in prima seduta. Quindi il problema non dovrebbe essere l’utilizzare un contatto emozionale in contrapposizione a concetti teorici per comprendere il testo, ma il come, il quando ed in che modo tali concetti teorici sono proposti, e se sono in sintonia o meno con il timbro emotivo del testo. Questo punto, del resto, è molto importante più in generale perché è il nodo in cui il modello intersoggettivo può elaborare la possibilità di non essere scambiato, da un pensiero più superficiale, per una semplice chiacchierata basata sull’empatia e sulle capacità affettive dell’analista.
In effetti, nei capitoli successivi, T. Ogden sottolinea che questo tipo di posizione d’ascolto ha profondi riferimenti con la teoria psicoanalitica alla quale egli fa riferimento, come il concetto bioniano di inconscio, di funzione sognante, il fatto che occorrono due persone attraverso la reverie per attivare la capacità di pensiero, le origini sensoriali del pensiero, le teorie del campo, fino al concetto di terzo analitico di Ogden stesso.
Lo stesso tipo di analisi lo ritroviamo nello scritto su “Un artista del digiuno” di Kafka. T. Hogden riporta la meraviglia di un passaggio emotivo notevole da una condizione tipica nei romanzi di Kafka in cui regna la contrazione del tempo e la follia (del digiuno professionale e della sua grande  rappresentazione) ad una condizione infine umana, recuperata attraverso l’unico momento dialogico del racconto, tra il protagonista digiunatore ed un inserviente, che permette al primo di accedere infine ad un nucleo di prima vera consapevolezza di sé.
L’approccio al testo dei critici letterari è invece, secondo gli autori, basato “sull’uso del critico di vari metodi di analisi testuale – che noi chiamiamo l”occhio del critico”. Per analisi testuale B. Hogden intende lo studio delle strutture di frasi, paragrafi e dialogo; sintassi, grammatica e punteggiatura; così come genere, contesto letterario e storico e la storia della stessa analisi formale. Non è chiaro come mai l’autore sembri non considerare approcci utili, oltre a quello della stilistica stilistica, quelli filologici, ideologici, antropologici e sociologici3.
Egli analizza con molta accuratezza ed intuito le frasi iniziali de “Lo scrittore fantasma” osservando come la frase di apertura del romanzo è immediatamente “intrusa” da un’altra frase inserita tra due “Audaci trattini4, che sembra dare un senso di irruenza di una storia dentro l’altra, dell’irruenza del vissuto del protagonista nella storia stessa, il quale, secondo l’autore, cerca di crearsi il suo spazio in competizione con la storia narrata. “L’inciso non è a parte, è un secondo inizio uguale al primo in ogni suo aspetto”. B. Hogden riporta ciò a quella che definisce “ una tensione ribelle tra narrazione e vita”, che, nella seconda parte del suo scritto, viene poi riportata alla tensione tra Zukerman (il protagonista) e suo padre, alla conflittualità tra il regolarsi sul pensiero paterno e il permettere di esprimersi alla propria vitalità. In fondo, dice l’autore, la struttura delle frasi sembrerebbe riportare ad una metanarrazione, una storia nella storia, come se la struttura sintattica e grammaticale, diventasse metafora e raccontasse essa stessa una storia parallela. Questo, per il critico letterario, è il suo ambito e rivendica la peculiarità dello strumento sintattico utilizzato, basato sull’analisi del frammento, sulla grammatica e sulla costruzione delle frasi, per esempio l’analisi dell’utilizzo degli “audaci trattini”, come uno strumento specifico del letterato e non dell’analista.
Nelle conclusioni, in poche righe, gli autori provano a parlare anche della natura della loro collaborazione, del come hanno cercato di costruire un “noi” lavorativo, consci del fatto che la loro collaborazione avesse anche una radice di “vivace scontro di due ordini di idee” e che tale scontro fosse anche ulteriormente “metanarrato” dalla scelta stessa degli scritti che esprimono l’oscillazione tra la necessità di un padre di lasciare tracce della propria voce ai posteri e quella di un figlio “Zukermann” di prendere qualcosa da quella voce ma salvando il proprio spazio personale attraverso una chiara differenziazione identitaria.
E’ sicuramente molto utile che gli autori ci abbiano sottoposto l’indiscussa esistenza di questi vertici di lettura e l’utilità del distinguerli e denotarli per avere una pluralità di accesso al testo, ma dovremmo anche chiederci: sono poi competenze così separabili ed identificabili in identità professionali diverse? In fondo ascoltare il suono è ciò che fa anche chi si occupa della sintassi dello scritto, perché mentre vediamo “sensorialmente” il testo quando leggiamo, vediamo anche con gli occhi della mente i protagonisti che si muovono e parlano ed è un po’ come se udissimo le loro parole. Allo stesso modo, percepire una frase “intrusa” sintatticamente è necessariamente anche una competenza uditiva degli analisti, che, quando è proposta da un loro paziente, dovrebbero sicuramente notarla. Inoltre nel loro lavoro gli analisti usano molto la lettura, sia nelle comunicazioni scientifiche che nelle discussioni cliniche attraverso protocolli e quindi anche la “competenza” visiva di ciò che comunicano i loro pazienti.
Potremmo quindi anche pensare, un po’ provocatoriamente, che potrebbe essere altrettanto utile invertire questa prospettiva della differenziazione delle competenze partendo invece dall’accettazione di una bellissima “area comune” seppure parziale, delle due aree di competenze che è l’area della ricerca di emozioni profonde, impreviste, nascoste nei meandri dell’animo umano se vogliamo usare un linguaggio letterario o dell’inconscio se usiamo un linguaggio psicoanalitico.
Chiaramente tutto ciò fatte salve quelle che poi sono le competenze specifiche e non comuni delle due professioni, quella clinica degli psicoanalisti e quella culturale letteraria degli scrittori. E’ forse proprio questa area comune, questa parziale inseparabilità, che spiega l’intensa relazione tra psicoanalisi e letteratura e la loro reciproca influenza, in fondo proprio come la relazione tra la voce di Eva ed il canto degli uccelli…. In questo senso, così come molti analisti possono avere una competenza “narrativa”, molti scrittori (in fondo tutti quelli che riescono ad emozionarci e sorprenderci) possono avere un intuito che possiamo definire psicoanalitico, quando scavano i mondi in ombra dei loro personaggi che, a loro volta, illuminano poi i mondi oscuri ed interni di tutti noi lettori. Intuito dal quale gli psicoanalisti hanno sempre attinto e, ci auguriamo, continuino a farlo.

NOTE

1 Per la poesia si consiglia di leggerla sia in inglese che in italiano in quanto i “suoni”, leitmotiv dell’’analisi di Ogden, cambiano considerevolmente nella traduzione (per esempio le rime sono intraducibili) e rendono difficile la comprensione del discorso dell’autore. Inoltre la traduzione stessa non è delle migliori (p. es. i due primi verbi della poesia sono al condizionale in inglese ma tradotti in indicativo presente in italiano…).

2 Avrebbe dichiarato ed avrebbe lui stesso creduto / Che gli uccelli là in tutto il giardino intorno / Avendo udito tutto il giorno la voce di Eva / Avevano aggiunto al loro proprio un sovrasuono / Il senso del suo tono ma senza le parole./ Certo solo una così delicata eloquenza avrebbe potuto avere un’influenza sugli uccelli / Quando un riso o un richiamo la portava in alto. / Sia come sia ella era nel loro canto / inoltre la sua voce sulle loro voci incrociata / Così a lungo nel bosco era indugiata / Che mai probabilmente sarebbe andata perduta. / Il canto degli uccelli non sarebbe mai più stato lo stesso / E per far questo agli uccelli che ella era venuta

3 F. Capello: “Psicoanalisi e critica letteraria: dall’applicazione alla conversazione” Rivista di psicoanalisi 2014/2

4 “Erano le ultime ore di luce di un pomeriggio di dicembre di più di vent’anni fa – avevo 23 anni, stavo scrivendo e pubblicando i miei primi racconti, e come gli eroi di tanti Bildundsroman che mi avevano preceduto, già contemplavo il mio stesso imponente Bildungsroman – quando raggiunsi il nascondiglio dove dovevo incontrare il grand’uomo”. (Roth, 1979)

Roma 20/1/2017

La nascita della intersoggettività

titolo La nascita della intersoggettività
sottotitolo Lo sviluppo del sé tra psicodinamica e neurobiologia
autori Massimo Ammaniti, Vittorio Gallese
editore Raffaello Cortina Editore
pubblicazione 04/2014
ISBN 9788860306562

Recensione di Ippolito Bonanno

Va subito detto, per dissipare dubbi nel lettore, che questo lavoro affronta la “nascita
dell’intersoggettività” nel senso dello sviluppo ontogenetico delle strutture psichiche atte a
metterci in relazione con l’altro, quindi riguarda lo sviluppo del Sé, e non la nascita della
clinica psicoanalitica intersoggettiva che conosciamo attraverso i lavori di Stolorow, Atwood, Stern, Ogden e molti altri analisti statunitensi, anche se naturalmente l’orientamento di costoro prende le mosse proprio dalla ricerca moderna sullo sviluppo della matrice intersoggettiva di cui questo libro parla.
E’ un libro in cui due correnti di ricerca tendenzialmente separate e distinte, come la
clinica psicoanalitica e gli studi neurobiologici trovano una confluenza fruttuosa. Massimo
Ammaniti è uno studioso di formazione psicoanalitica che ha dedicato il lavoro di una vita alla clinica e alla ricerca sulla psicopatologia dello sviluppo. Vittorio Gallese è uno dei più
autorevoli neuroscienziati contemporanei, fondatore della teoria della simulazione incarnata e tra i principali ricercatori che hanno contribuito alla scoperta dei neuroni specchio.
Dai tempi in cui Sigmund Freud tentava, nel “Progetto di una psicologia scientifica”,
(1895) di legare le conoscenze neurofisiologiche alla spiegazione del funzionamento psichico è passato molto tempo. Egli stesso dovette constatare l’insufficienza delle conoscenze del tempo per essere applicate e poter corroborare l’approccio psicoterapeutico da lui ideato agli inizi del secolo scorso, pertanto il “progetto” fu abbandonato anche se con la previsione e l’auspicio che l’approccio neurologico potesse in futuro ricongiungersi con quello psicoterapeutico.
Che cosa è avvenuto in questi cento anni? La psicoanalisi ha gradatamente spostato il
focus della propria disciplina sempre di più dall’Edipo alle prime relazioni oggettuali;
dall’interpretazione del rimosso di una memoria semantica all’attenzione sul transfert di
memorie procedurali di un inconscio non rimosso; dalla considerazione delle forze pulsionali ai precocissimi condizionamenti reciproci della coppia madre-figlio; da una concezione di un neonato egocentrico e quasi autistico a un bambino già competente alla relazione sin dalle sue prime ore di vita. La neurobiologia dal canto suo si è avvalsa, nel corso degli anni, di strumenti scientifici che gli hanno consentito di penetrare in modo sempre più approfondito nel microcosmo anatomico dell’organismo. Dall’analisi delle cellule nervose si è passati all’analisi molecolare di quest’ultime, dalle considerazioni neuroanatomiche effettuate ad occhio nudo del cervello si è passati a un’analisi del suo funzionamento complessivo tramite le moderne tecniche di neuroimaging.

Nasciamo veramente autistici? La nostra identità personale precede la capacità di relazioni intersoggettive? Il linguaggio umano può essere ridotto al suo aspetto sintattico trascurandone la sua essenza dialogica? Nell’essere umano c’è qualcosa di qualitativamente speciale nella sua capacità di rappresentazione dell’altro o si tratta solo di una conseguenza del suo sviluppo intellettivo quantitativamente superiore rispetto a tutti gli animali? Per la prima volta forse la ricerca neurologica con la sua metodologia inevitabilmente riduzionista e la ricchezza dell’esperienza dell’incontro su cui si basano le osservazioni psicoanalitiche possono incontrarsi su un terreno fecondo.

La “rivoluzione” intersoggettiva, vede i suoi probabili precursori in Melanie Klein col concetto di identificazione proiettiva e Donald Winnicott con la sua celebre frase: “il bambino che guarda la madre e vede sé stesso nei suoi occhi”, ed anche naturalmente nella psicologia del Sé di Einz Kohut, ma un forte richiamo ai temi dell’intersoggettività lo troviamo soprattutto nel filosofo Martin Buber col suo libro “L’Io e il Tu”.
Certo, lo psicoanalista si è formato nell’ambito di una teoria in cui campeggiano la prima
persona (nel senso dell’Io e dell’introspezione) e la terza persona (ovvero come gli altri mi
appaiono e interagiscono con me) mentre l’approccio intersoggettivo sospinge ora l’attenzione sulla seconda persona del discorso, sottolineando la natura fortemente appunto intersoggettiva dello strutturarsi dell’apparato psichico. In un’ottica psicodinamica possiamo dire che questa nozione sposta ulteriormente il focus dell’attenzione clinica (che era stata precedemente spostata dall’Io al Sé) ora dal Sé al Noi (We-ness). L’inconscio rimane il cardine della psicoanalisi, ma nella sua declinazione intersoggettiva appare come un inconscio anche esoprattutto relazionale, così come resta la dinamica del desiderio ma al posto del desiderio rimosso del soggetto sembra sostituirsi il desiderio dell’altro, assorbito nella memoria implicita ed episodica del soggetto. L’idea di fondo che ispira questo lavoro è che le continue interazioni reciproche tra bambino e caregiver (tradizionalmente inteso come “madre”, ma che in linea con
l’orientamento attuale qui si include anche il “padre”) sin dai primi giorni di vita, generano un processo che conduce alla realizzazione di un sistema psichico volto alla comprensione della mente dell’altro. Tale sistema ha delle connotazioni non solo psicologiche dedotto in astratto o dal comportamento osservato ma rilevabili in termini neuro anatomici.
Va specificato che in quest’opera confluiscono non solo i contributi della psicologia
dinamica e delle neuroscienze. ma anche quelli di discipline psicologiche diverse da quelle psicodinamiche come quelle cognitive: la visione dell’uomo come “elaboratore d’informazioni” ha condotto a una impressionante quantità di ricerche su come l’individuo impara a farsi una idea del funzionamento mentale dell’altro, (la cosiddetta “Teoria della mente”). Queste ricerche hanno scavato a fondo nella complessità dello sforzo dell’individuo di comprensione dell’altro, sforzo visto come la realizzazione di una mappatura sostenuta da una incessante e precocissima attività metarappresentazionale. E’ proprio sulla scia di questa ricerca cognitiva che è iniziata la feconda collaborazione con le neuroscienze nell’individuazione delle aree cerebrali interessate alla realizzazione della Teoria della mente.
Secondo Gallese, alla base della “lettura” della mente altrui vi è l’intercorporeità, il presupposto della continuità biologica tra noi e gli altri. Sin dal concepimento “abitiamo”
letteralmente nel corpo della madre ed una volta nati è attraverso il corpo che andiamo incontro agli oggetti. In questa visione è il sistema motorio a fornire i “mattoni” con cui costruiamo le nostre abilità sociali. I neonati, grazie alla dotazione neurale individuabile tra le aree motorie e quelle visive, sviluppatasi negli ultimi mesi di gestazione, sono in grado di imitare i gesti eseguiti dal caregiver adulto posto di fronte a loro. Questa abilità insieme ad altri riflessi e capacità elementari rendono possibile la realizzazione di comportamenti reciproci col caregiver tipici dei primi mesi di vita.
A partire dalle notazioni di Spitz sul sorriso automatico che un neonato fa in risposta alla
percezione di un volto umano, ci si è gradatamente resi conto di come le capacità imitative
degli esseri umani, e persino nei primati, sono estremamente e sorprendentemente efficienti sin dai primi giorni di vita. Di fronte ad un soggetto che compie una azione noi possiamo osservarlo ed imitarlo oppure semplicemente osservarlo. Nel primo caso si attiva realmente il movimento grazie alla via cortico-spinale, nel secondo caso il movimento è inibito, ma le componenti neuronali cerebrali sono comunque attivate, anche se parzialmente. In questo caso abbiamo una simulazione dell’azione invece che la sua realizzazione. Ciò avviene anche quando immaginiamo di compiere una data azione.
I neuroni specchio sono parte di un sistema neurale che si attiva quando noi e gli altri facciamo qualcosa. A fianco di una più distaccata valutazione in terza persona di ciò che
osserviamo negli altri, nell’individuo si evocano delle rappresentazioni interne e in formato corporeo delle azioni e delle emozioni percepite nell’altro. Come se l’individuo che percepisce stesse lui stesso eseguendo quelle azioni o vivendo quelle emozioni. E’ questa in sintesi la teoria della simulazione incarnata, che viene considerata la base per una teoria dell’intersoggettività. Secondo questa teoria, di fronte ad un altro che esperisce una certa cosa non è che necessariamente esperiamo in modo specifico la sua esperienza ma di certo esperiamo l’altro come una persona che ha esperienze simili alle nostre. Inoltre un dato molto interessante è che più l’azione osservata rientra nel nostro repertorio di azioni, cioè ci è familiare, e più la risposta neuronale è anticipata e forte. Mentre la risposta è debole e ritardata di fronte ad azioni non consuete.Da un punto di vista adattivo e funzionale, tutto questo sembra fortemente collegato con la realizzazione di un apparato per prevedere anticipatamente l’azione. Ma è evidente che questo è
anche collegato con la realizzazione di un apprendimento dell’emotività a partire dalla lettura delle espressioni dell’altro, secondo un meccanismo descritto da Gergely e Watson come biofeedback sociale. Questo apprendimento sarà quindi collegato con la previsione dell’azione altrui. Una visione questa in cui la nozione comportamentista di imitazione e quella psicoanalitica di introiezione si compenetrano. Ma ritroviamo in questa descrizione anche anche una spiegazione in termini neurologici dello sviluppo di quello che tradizionalmente viene definita in psicologia sociale come atteggiamento ed in psicologia dinamica come interiorizzazione dell’oggetto.
Gli autori sottolineano i legami tra l’approccio intersoggettivo e la teoria dell’attaccamento.
I forti punti di contatto che quest’ultima ha con l’etologia la rendono adeguata ad una ricerca su un tema psicologico che coinvolge aspetti neurofisiologici. Va però considerato che, mentre la teoria dell’attaccamento si fonda sulla ricerca del senso di sicurezza che un bambino piuttosto inerme ha verso il caregiver, l’approccio intersoggettivo vede un protagonista più attrezzato e competente volto alla realizzazione di scambi interattivi con il caregiver necessari alla mutua regolazione affettiva. Il libro contiene una vasta descrizione degli eventi prenatali e postnatali connessi con la determinazione delle basi neurobiologiche del fenomeno dell’intersoggettività. In tale direzione si procede ad una disamina delle principali ricerche in merito agli eventi cruciali dell’alba dello sviluppo ontogenetico del bambino: il desiderio e l’attesa del bambino; le modificazioni biologiche e psicologiche della madre in gravidanza; la descrizione del costrutto di attaccamento materno-fetale, le modificazioni dello sviluppo cerebrale di madre e bambino in relazione agli scambi relazionali della diade; il ruolo del padre, la cogenitorialità e l’interazione triangolare; l’importanza della sincronia, della contingenza e della condivisione dell’attenzione; gli effetti dello stress genitoriale, del maltrattamento e della trascuratezza.
La lettura di questo libro, per il clinico, oltre a costituire una occasione per conoscere lo
stato attuale delle dell’Infant Research, ha anche il pregio di mostrare una rivisitazione in
chiave neurobiologica di concetti classici o attuali tra cui la rappresentazione del desiderio e la percezione dell’oggetto di Freud, gli oggetti interni kleiniani, la depressione anaclitica di Spitz, la preoccupazione materna primaria di Winnicott i modelli operativi interni di Bowlby, la sintonizzazione di Stern e la mentalizzazione di Fonagy.

Roma 20/1/2017