
Titolo della pubblicazione: Autenticità e reciprocità. Un dialogo con Ferenczi
Autori e curatori: Luis J. Martin Cabrè
Prefazione: Stefano Bolognini
Editore: Franco Angeli
anno di pubblicazione: 2016
ISBN: 9788891743107
Recensione a cura di Ermelinda Di Ianni
Il libro Autenticità e reciprocità. Un dialogo con Ferenczi (a cura di Luis J. Martin Cabré, Roma, Franco Angeli Editore, 2016) è il frutto dello studio di un gruppo di autori impegnati nella rilettura analitica del Diario Clinico di Sandor Ferenczi (1932). È un testo articolato, che richiede più di una lettura, ma che consente di accedere ad un livello di comprensione sintetico del pensiero di Ferenczi, che viene messo in relazione sia con il sapere psicoanalitico dell’epoca, e quindi con la teorizzazione di Freud, sia con alcuni temi psicoanalitici che saranno sviluppati negli anni successivi, ma i cui prodromi sono rintracciabili proprio nelle riflessioni dello psicoanalista ungherese.
Il testo inizia con tre contributi i cui autori, ciascuno con la propria sensibilità, mettono l’accento su diversi aspetti del pensiero di Ferenczi: viene evidenziato che le innovazioni della tecnica, a tutt’oggi contestate e contestabili, sono strettamente legate al lavoro di Ferenczi con i livelli primitivi delle menti con cui è entrato in contatto, grazie al lavoro clinico, e che fino a quel momento erano rimasti non rappresentati. Il coraggio solitario con cui Ferenczi portava avanti i suoi studi, la sperimentazione dell’analisi reciproca, uniti al desiderio bruciante di prendersi cura dei casi più gravi, gli fanno incontrare i traumi infantili dei pazienti, ma anche di se stesso, e lo mettono in condizione di fornire, in questo ambito, un contributo scientifico il cui valore è unanimemente riconosciuto. A questa prima parte seguono due sezioni, cui farò ampio riferimento, dove il lavoro è consistito nella lettura collettiva e critica di diverse giornate del Diario e nella successiva sintesi da due vertici: il vertice “transfert-controtransfert e assetto mentale dell’analista” e il vertice “trasmissione di affetti e vissuti nella relazione”. Completano il libro alcuni cenni biografici delle pazienti maggiormente citate da Ferenczi nel Diario, saggi di approfondimento sui due lavori di Ferenczi Confusione di lingue tra gli adulti e il bambino e Thalassa. Saggio sulla teoria della genitalità ed infine contributi in cui c’è un focus su temi quali Orpha, pulsione di morte, Splitting e Spaltung messi in relazione con il pensiero di Freud.
La lettura ha destato in me un particolare interesse, in quanto considero l’assetto mentale dello psicoanalista descritto dallo studioso ungherese un’indicazione valida per chi, anche oggi, svolga la sua medesima professione: tenere aperto, cioè, il dialogo interno tra ricerca, studio e input provenienti dal materiale clinico. Questo è ciò che rende vivificante la professione di psicoanalista, sia a vantaggio del paziente che dell’analista stesso.
Leggendo il testo si riesce ad apprezzare il modo in cui la mente di Ferenczi lavora: si muove di continuo e nelle due direzioni dalla clinica alla teoria e, in quest’ultimo ambito, dal già conosciuto all’ancora sconosciuto, come solo un libero pensatore sa fare. Entrando nel cuore del libro, ci si imbatte nella concezione nuova di Ferenczi di transfert-controtransfert, inteso nei termini di un asse la cui direzione è reversibile; un concetto dirompente per il sapere psicoanalitico dell’epoca, in quanto Freud concepiva, e avrebbe sempre concepito, il transfert come ostacolo alla cura e in termini unidirezionali da paziente ad analista. Ma come arriva Ferenczi a tale teorizzazione? Il punto di partenza, spiega il volume, è l’esperienza clinica: va tenuto presente che i pazienti da lui presi in cura erano affetti da gravi patologie psichiche e in moltissimi casi vittime di abusi. Con il trauma si lacera la trama che tiene insieme aspetti sensoriali, emozionali e mentali, necessaria per fare esperienza e per ricordare. Un paziente così confuso non è già pronto per il lavoro di pensiero, deve essere ad esso accompagnato. L’analista deve essere disposto a restare con lui in piena tempesta emozionale e a ritrovare nell’hic et nunc della seduta quella posizione in cui prende corpo lo stato emotivo di entrambi: la franca comunicazione di tutti i sentimenti, soprattutto quelli ostili, nutriti nei confronti del paziente, e quindi quel che arriva al paziente di reale circa i sentimenti dell’analista, lo aiuta a fare i conti con un dolore reale nella situazione del momento. In questo senso l’analisi reciproca, che Ferenczi individua come strategia per uscire da uno stallo con la sua paziente R.N., esprime il tentativo di mantenere nel campo analitico la complessità delle forze in gioco (quali ad esempio la resistenza del paziente e anche quella dell’analista). Il luogo del trauma è un punto di snodo per paziente ed analista: l’analista deve essere disposto a rischiare di perdere la propria cornice, mettendosi nella posizione di paziente e a prestare ad una bambina in preda al terrore la propria mente per compiere un lavoro psichico. Comunicando tutto al paziente, nella dinamica del ribaltamento dei ruoli, si produce un effetto tragico: l’interruzione del contenimento ha come effetto il riprodursi del trauma e l’assistere dal vivo al processo di disintegrazione che ha dato origine alla patologia. Si può dire che la reciprocità faccia impazzire ancora di più. Ma l’analista, mantenendo la propria posizione e un proprio registro di autoanalisi, può evitare il pericolo di lasciare solo il paziente in balia di questa angoscia traumatica, dandogli la possibilità di condividere la propria sofferenza con un adulto benevolo. Si può così riavviare un processo di riunificazione tra il sentire e il pensare. Nella relazione analitica, all’interno dell’asse transfert-controtransfert, si rappresenta qualcosa di nuovo che ha a che fare con il trauma. Il transfert e il controtransfert non sono una mera ripetizione, bensì l’incontro con un altro nuovo che permette la riattualizzazione dell’esperienza traumatica con esito diverso. Questo cambiamento di rotta della tecnica, oltre a facilitare il contatto del paziente con il suo trauma, gli mostra i limiti dell’aiuto che l’analista può offrire. Si avvia quindi un processo di deidealizzazione dell’analista. Dopo il con-sentire, il processo di separazione è lungo e difficile, ma necessario: c’è un nuovo dolore da attraversare, legato alla crescita e alla separazione ed inserito nella prima relazione di reciprocità della vita del paziente. Da quanto detto, si comprende che l’aspetto empatico ed oblativo, che rimanda alla funzione materna, il più riconosciuto in Ferenczi, si accompagna, per la buona riuscita dell’analisi, alla funzione paterna che facilita il distacco e la crescita. L’esperienza del rimanere abbandonati dopo il trauma, trovandosi di fronte al diniego dell’adulto, è ciò che rende l’aggressione un trauma psichico. L’analista si assume il compito di interrompere quella solitudine traumatica e di instaurare un clima di fiducia in cui la solitudine reale possa essere sopportata. Ferenczi ritiene che esistano due vissuti di solitudine: la solitudine traumatica insopportabile e la solitudine sopportabile, quel vissuto in cui si è soli con il proprio dolore ma che si può tollerare grazie all’internalizzazione di una figura di aiuto. Naturalmente erano noti a Ferenczi i limiti e i rischi dell’analisi reciproca, da praticarsi, a suo avviso, solo nella misura in cui il paziente ne avesse il bisogno (di fronte al fallimento della tecnica classica) e la capacità, evitando che i pazienti si occupassero della persona del medico più di quanto fosse necessario per la loro analisi. Ma Ferenczi ritiene più grave il rischio di rimanere preda del “delirio scientifico”, cioè di quella modalità dell’analista che si assenta dalla propria emotività.
Di fronte alla scissione, alla frammentazione e alla dissociazione osservate nei pazienti che avevano subito gravi traumi anche in epoca preverbale, Ferenczi ritiene che l’analista non debba mantenersi in una posizione emotivamente neutrale, bensì disponibile a farsi attraversare dai flussi affettivi del paziente, compiendo un faticoso lavoro di elaborazione del controtransfert, prima di arrivare a formulare l’interpretazione. Le difficoltà nelle quali si imbatteva Ferenczi, infatti, non erano riconducibili alla resistenza a ricordare (inconscio rimosso classicamente inteso), bensì all’assenza di trascrizione dei vissuti traumatici nelle tracce mnestiche.
Occupandosi di questi stati primari, Ferenczi giunge a considerare le relazioni primarie alla base della costituzione del senso di sé e a delineare il primo modello psicoanalitico relazionale della mente: secondo tale impostazione teorica, l’apparato psichico prende forma nell’incontro, un incontro in cui i trasferimenti di affetti avvengono per contatti e connessioni (cosa confermata da recenti studi in ambito neuroscientifico), oltre che e prima ancora che nelle relazioni, così come le pensiamo in termini di soggetti adulti. A questo tipo di incontro si riferisce Ferenczi quando parla del dialogo tra inconsci che avviene in analisi, che può essere definito come l’interdipendenza tra due persone che si capiscono e si lasciano capire reciprocamente a fondo e che si trasmettono anche quegli stati affettivi che non hanno raggiunto lo stato di rappresentazione. Ferenczi, fiducioso circa la reversibilità di tutti i processi psichici, credeva che nel qui e ora della seduta si potesse raggiungere una condizione di sintonizzazione comunicativa, necessaria a riparare le esperienze traumatiche. Con questa esperienza cresce nel paziente la fiducia circa la possibilità di sintonizzarsi con se stesso e di sentirsi soggetto nelle relazioni. In condizioni normali, una madre in contatto emotivo con se stessa offre al bambino la sua capacità di risonanza emotiva, il riconoscimento dei suoi stati fisici ed emotivi e crea per entrambi uno spazio mentale che accoglie la specificità del neonato come nuovo soggetto. Analogamente, l’analista compie un’attività di accoglimento trasformativo, un lavoro psichico che accompagna il paziente verso il riconoscimento e l’accettazione degli affetti che vanno poi legati alle rappresentazioni e alla realtà. Questo lungo e complesso lavoro si apprezza in particolare nel trattamento di pazienti vittime di traumi. Per Ferenczi il trauma è l’esito di un articolato percorso: in un primo momento si crea la cicatrice traumatica preprimaria nel rapporto con la madre (dovuta a gravi mancanze di sintonizzazione), nella seconda fase interviene l’evento traumatico e infine il terzo momento, quello del disconoscimento materno del trauma avvenuto, è quello che assume un affetto patogeno definitivo. La negazione del danno comporta il disconoscimento di parti di sé che il bambino attua per salvaguardare la sua sopravvivenza psichica. Solo la nuova sintonizzazione con l’analista permette di creare un “luogo” in cui, prima di ogni altro lavoro psichico, è necessario accogliere le memorie traumatiche (sensazioni fisiche, disturbi funzionali, crisi emotive) che, non essendo arrivate al livello della rappresentazione, non possono essere ricordate. Nella nuova relazione analitica, trasformativa e creativa grazie alla funzione analitica, ciò che non è stato rappresentato ha l’occasione di andare oltre il destino, che lo aveva relegato prevalentemente alla sensorialità e alle paure viscerali per essere reso rappresentabile nella dimensione interpsichica della relazione. Perché ciò possa avvenire, deve entrare in gioco un analista partecipe, che attivi le “manifestazioni di ricettività più raffinate” e che esprima una funzione soggettualizzante, al pari di quella che avrebbe dovuto svolgere il genitore. L’esperienza clinica convince Ferenczi circa l’importanza dell’ambiente nella formazione del bambino: l’ambiente può o meno offrire al bambino la quota di pulsione di vita necessaria ad avviare il processo di sviluppo del sé. L’adulto, in condizioni ottimali, fornisce la propria libido al bambino, che, grazie alla sua predisposizione introiettiva, è in grado di accoglierla. L’individuo infatti, sostiene Ferenczi, è dotato di un meccanismo psichico originario, l’introiezione, che consente l’inclusione della realtà esterna nel proprio interno. L’introiezione, che sarà poi definita un meccanismo di difesa, è per Ferenczi un processo organizzatore primario costitutivo delle prime tappe dello sviluppo psichico, un meccanismo attraverso cui poter accogliere il contenuto libidico della pulsione di vita. Ma questa stessa attitudine è ciò che fa sì che il terreno psichico venga segnato anche da impronte traumatiche.
“Non è pensabile che nella storia della nostra scienza il nome di Ferenczi possa mai essere dimenticato”. Così scriveva S. Freud nel necrologio di Sandor Ferenczi. Non si può dimenticare infatti che Ferenczi inaugurò un nuovo modo di fare analisi con l’intento di raggiungere profondamente i suoi pazienti difficili, offrendo loro ciò che avrebbe voluto per sé nell’analisi con Freud. Né si possono dimenticare i suoi sforzi di approfondimento teorico, che nella storia della psicoanalisi si sarebbero rivelati tanto fecondi, ma soprattutto non si può dimenticare che tutto il suo ingegno e la sua passione sono stati costantemente messi al servizio dei pazienti, anche quando questo ha significato cimentarsi in sperimentazioni ardite, pur di raggiungere il dialogo tra inconsci e quella comprensione autentica e trasformativa capace di interrompere il ripetersi di fatti traumatici.