Titolo LA RELAZIONE PSICOANALITICA. Contributi clinici e teorici
Autori e curatori

Stefano Bolognini, Presentazione
Irene Ruggiero, Prefazione
Nicolino Rossi, Irene Ruggiero, Introduzione

Contributi Stefano Bolognini, René Roussillon, Anna Ferruta, Franco Borgogno, Daniela Nobili, Benedetta Guerrini Degl’Innocenti, Christoph Walker, Marco Mastella, Francesco Pozzi, Paola Golinelli
Editore Franco Angeli
anno di pubblicazione 2017
ISBN 978889174497

Recensione a cura di Francesco Piermattei

Così come accade in tutti i campi della ricerca scientifica anche in psicoanalisi, da tempo, siamo di fronte a scoperte ed evoluzioni che non sono più il risultato del lavoro di un singolo, ma di un gruppo.  E, per giunta, di un gruppo allargato, di una comunità scientifica sparsa in vari paesi, che elabora contributi sullo stesso argomento anche in momenti diversi, partendo spesso anche da assunti diversi. Ciò comporta una notevole complessità di integrazione dei contributi che, quando viene anche in parte raggiunta, porta un grande beneficio all’evoluzione di tutta la comunità.

Mi sembra che ciò sia avvenuto anche con questa interessante pubblicazione che raccoglie i contributi di 12 psicoanalisti italiani ed esteri presentati al 1° Dialogo Internazionale sulla Relazione Psicoanalitica, organizzato dal Centro Psicoanalitico di Bologna. Credo che il testo abbia il grande pregio di mettere ordine sia cronologico che concettuale sull’argomento. Come scritto nella postfazione “il volume raccoglie contributi italiani ed esteri sul tema della relazione analitica, tema che si è sviluppato e progressivamente imposto negli ultimi decenni, in tutto il panorama psicoanalitico mondiale, ma ha avuto in Italia uno sviluppo autonomo ed originale”.

Lo studio della relazione analitica in psicoanalisi ha portato a notevoli e significativi cambiamenti rispetto al modello classico, sia nella teoria che nella tecnica, ampiamente descritti e documentati nel testo. Si tratta di un processo che inizia a sostanziarsi in Italia alla fine degli anni ’70 (su stimolo, in Italia, tra gli altri, anche di quell’inesauribile ricercatore che è stato Francesco Corrao) e che prenderà una prima forma nel Congresso Nazionale della SPI di Taormina del 1980 dedicato appunto alla relazione analitica. Molta strada è stata fatta da quel momento e questo testo sembra rendercene ben conto.

Il volume si apre con la presentazione di Stefano Bolognini, che sottolinea quanto la conflittualità tra modello pulsionale e modello relazionale sia, specialmente dal punto di vista clinico, ampiamente ridimensionata, non nel senso di una omogeneizzazione ma nel senso che l’attenzione ai processi di scambio in seduta ed alla realtà strutturale dei pazienti non è detto che debbano confliggere anzi vanno di pari passo, diversamente da quello che tendono a dire alcuni detrattori della psicoanalisi.

Molto interessante è la breve ma concisa ricostruzione storica del concetto di relazione analitica operata nella prefazione di Irene Ruggiero. Da annotare che brevità, chiarezza e concisione sono positive caratteristiche di tutti gli scritti del libro, che non supera le 180 pagine, senza mancare di materiale clinico e di ricche bibliografie per ciascun capitolo per chi voglia approfondire. La Ruggiero sottolinea la nascita del modello relazionale con il saggio di Ferenczi “La confusione delle lingue”, che diede anche inizio al conflitto con Freud e quindi al conflitto tra pulsionale e relazionale. Come sappiamo Freud era molto preoccupato delle possibili accuse di non scientificità della psicoanalisi e quindi non voleva aprire all’utilizzo clinico del controtransfert e della relazione, concetti sui quali non era stata certo prodotta l’elaborazione di cui possiamo fruire oggi. Sicuramente, come dice Bolognini, “l’apertura mirata e funzionale dei confini personali” che oggi permette il modello relazionale, può dare a tutti maggiore tranquillità in quel senso.

Rossi e Ruggiero, nella loro introduzione, descrivono, in maniera cronologica e con chiarezza, quali sono i nuovi strumenti della relazione analitica “storicamente” sedimentati: iniziano con alcune considerazioni di Freud sull’importanza di alcune caratteristiche dell’analista e continuano con il concetto di identificazione proiettiva Kleiniano e poi Bioniano, con la rivalutazione del concetto di controtransfert come strumento conoscitivo e non negativamente reattivo, con la contro identificazione proiettiva, con la reverie Bioniana, l’holding Winnicottiana, il concetto di campo dei Baranger. Ed infine l’ampiamento del costrutto di inconscio, il concetto di inconscio non rimosso, la capacità negativa, l’enactment. Questo insieme di nuovi strumenti ha portato a sensibili variazioni del setting, come una controllata “self disclousure” e della tecnica, come il modo di interpretare l’utilizzo dei sogni e dell’agire durante la seduta.

Il libro poi si divide in quattro parti. La prima, “Elementi costitutivi della relazione analitica” è svolta con i contributi di Stefano Bolognini, René Roussillon e Anna Ferruta. Bolognini riprende il problema del conflitto tra modelli, analizzando i transfert “istituzionali” tra analisti che, spesso, portano ad eccessive affiliazioni alle teorie o eccessive personalizzazioni delle stesse, con conseguenti eccessivi rigetti. E’ con senso dell’equilibrio che viene sottolineato il rapporto tra relazionale ed istintuale ed anche il rischio, per il “relazionale” del perseguire un facile cooperativismo che può rischiosamente portare ad una condivisa elusione di parti scisse tra analista e paziente. Roussillon propone il suo interessante discorso sulla elaborazione delle tracce mnestiche che Freud ha chiamato “materia prima psichica”, che registrano tutto ciò che è l’esperienza umana soggettiva. L’elaborazione di essa, complessa ed enigmatica, comporta che “trasformazioni” ed “addomesticamenti” necessari al raggiungimento della simbolizzazione ed all’incameramento dell’esperienza, avvengono “al di sotto” della delimitazione di se e dell’altro. Ciò ad indicare che i processi presimbolici e simbolici avvengono tutti in ambito relazionale e gruppale. Ferruta si pone il problema di mettere il paziente in condizione di costruire una nuova narrazione di sé a partire dai propri elementi unici primari, con un atteggiamento che non riempia il simbolico del paziente con gli elementi dell’analista, il quale impara a lasciare lo spazio al paziente per il riassemblamento delle sue cose, lasciandosi usare in senso Winnicottiano.

La seconda parte del testo “Alle origini della relazione analitica” comprende i contributi di Nicolino Rossi, Franco Borgogno e Daniela Nobili. Rossi sottolinea come alle radici dell’evoluzione relazionale della psicoanalisi si trovino anche il cambiamento culturale ed epistemologico avvenuti nella seconda metà del ‘900, relativi, per es., alla visione quantistica in fisica, al ridimensionamento del biologismo, alla nascita di nuove correnti artistiche e filosofiche. Sottolinea poi la differenziazione tra psicoanalisi relazionale di matrice nordamericana, basata sull’evoluzione della psicoanalisi dell’io operata in primis da Greenberg e Mitchell, e relazione analitica italiana, basata sulla evoluzione di linee di pensiero kleiniane, bioniane, ferencziane e winnicottiane. Molto interessanti infine le sue notazioni sul rapporto tra il vertice della triangolarità edipica e quello della dualità relazionale, dove il terzo, per esempio rappresentato a volte dalle regole del setting, può essere reso più o meno presente nella coppia analista-paziente.

Borgogno e Nobili prendono invece in considerazione l’opera di Ferenczi, facendo riferimento in particolar modo al Diario Clinico, sottolineandone le due direttrici principali, quella della storia personale dell’analista da intendersi come strumento conoscitivo della storia del paziente (Borgogno ci ricorda che furono Ferenczi e Jung ad istituzionalizzare l’analisi personale dell’analista) e quella del farsi paziente. Farsi paziente fino al punto di prendere su di sé la malattia del paziente, attraverso il vivere tutti i ruoli che l’inconscio del paziente gli assegna fino ad arrivare ad un rovesciamento di ruoli che comporta un ammalarsi e poi guarire della malattia del paziente stesso. Significativo da parte di Daniela Nobili il breve richiamo a Luciana Nissim ed Herbert Rosenfeld,(in nota) due autori che, nei loro rispettivi contesti, italiano l’una ed internazionale l’altro, molto hanno dato allo sviluppo del modello della relazione analitica e forse, avrebbero dovuto essere più considerati.

La terza parte del libro, “Azione e rappresentazione nella relazione analitica” è curata da I. Ruggiero, B. Guerini Degl’Innocenti e K. Walker, descrive come il concetto di acting out si sia modificato fino al punto di essere considerato non più come una “fuga da” ma come un possibile precursore della pensabilità, così come un’azione “pensata” dell’analista può essere pensata come un precursore dell’interpretazione. Lo scritto di Guerini Degl’innocenti si pone il problema del passaggio dall’azione alla rappresentazione: “la trasformazione che noi ricerchiamo nel corso di un’analisi è duplice: una trasformazione dell’azione in linguaggio e una trasformazione nell’uso del linguaggio in un modo che possa supportare il pensiero simbolico”. Le tante manifestazioni in analisi che non hanno parola possono intendersi come azioni linguaggio o rappresentazioni in azione presenti quando la capacità simbolica è danneggiata ma non vanno considerate come meri tentativi espulsivi, bensì come personaggi in cerca di autore.   Anche Ruggiero pensa che l’agire può avvenire in momenti integrativi della mente, come un loro regolatore ed accompagnatore. Nella relazione analitica si nota inoltre “la relativa indefinitezza di confini tra azione e rappresentazione e tra azione ed interpretazione” come sottolineano i concetti di “pensiero-azione” di Bollas, le “interpretazioni-azione” di Ogden e le “azioni parlanti” di Racamier. Queste aperture rispetto all’uso dell’azione caratterizzano oggi molto il modello relazionale rispetto a quello classico. La possibile “azione deliberata” dell’analista si distingue dall’agito e dall’enactment per l’assenza di una tensione interna a compierla, non rappresenta l’esito di una induzione inconscia ma piuttosto l’espressione di un pensiero dell’analista resa necessaria dal fatto che l’analista, in quel momento e con quel paziente valuta che l’interpretazione verbale non potrebbe ancora essere accolta o compresa. La considerazione conclusiva della Ruggiero di un’analista più alla mano ma che non si faccia prendere la mano la dice lunga comunque sulla complessità di utilizzare l’azione in psicoanalisi. Walker infine partendo dall’assunto che anche in Freud si ritrovano spesso passaggi legati alla relazione ed uso “dell’azione” come sopra intesa, illustra in maniera approfondita due casi clinici ed il faticoso processo di vivere il “claustrum” del paziente, quell’area di ritiro dove solo attendendo con pazienza e “trattenendo il respiro”, essersi cioè fatti paziente, si può infine poter accedere.

Nella quarta parte, “La relazione analitica nella psicoanalisi infantile”, troviamo gli articolati lavori di Mastella e Pozzi, che pongono il problema della relazione analitica nel diverso setting della psicoanalisi infantile. Assodato il fatto che la psicoanalisi infantile sia vera psicoanalisi, considerato anche il contributo che essa ha portato alla psicoanalisi in generale già da prima della seconda metà del secolo scorso, credo si ponga il problema della relazione reale e fantasmatica e della “quantità di agito” necessaria per gestire un setting molto più complesso ed articolato del setting individuale. Innanzitutto dai lavori dei due autori emerge con evidenza come il setting della terapia infantile sia un setting in cui l’analista interagisce di più con il paziente rispetto al setting adulto, con coinvolgimento (tra reale e fantasmatico) nel gioco, nel contatto fisico, nella gestione delle funzioni del corpo del bambino. Questo ci fa immediatamente riflettere sull’importanza del contributo della psicoanalisi infantile alle teorizzazioni sulla relazione analitica. Potremmo avere invece qualche dubbio su quanto poi la gestione (chiaramente indispensabile) di altre relazioni “reali”, come quelle con i genitori singoli ed in coppia e con il nucleo familiare intero, possano apportare ulteriori contributi alla teorizzazione sulla relazione analitica , specialmente quando siano soltanto  limitate  alla gestione dell’ansia genitoriale, alla limitazione non interpretata di agiti e a consigli pedagogici che non possano essere riportati al fantasmatico ed al simbolico. Mi pare simile come problema a quello della psicoanalisi nelle istituzioni, costretta necessariamente a confrontarsi con il terzo “reale” e non fantasmatico (l’istituzione appunto).

Il libro si chiude con la postfazione di Paola Golinelli, che riassume i temi principali del libro. Da sottolineare la sua citazione di Racalbuto che ritrovava nell’opera di Freud i tre diversi vertici che ombreggiavano lo spessore della proposizione relazionale: “…la costituzione del soggetto non può prescindere dagli oggetti della sua vicenda evolutiva, cioè gli oggetti delle cure primarie, quelli che ruotano intorno al conflitto narcisistico dell’individuazione-separazione e poi quelli della conflittualità edipica”.

Terminerei con la conclusione stessa dell’autrice che nota come “la vitalità (della psicoanalisi) sia legata alla capacità di trasformazione, di cambiamento e al coraggio di procedere nella ricerca clinica, quindi alla capacità di evolvere della psicoanalisi e degli psicoanalisti”, aggiungendo che oramai tale lavoro non viene più fatto da singoli ma da gruppi complessi di ricerca, come dimostra l’evoluzione della teorizzazione sulla relazione analitica e sicuramente questo stesso testo.

 

 

 

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