Titolo della pubblicazione:
L’orecchio dell’analista e l’occhio del critico
Sottotitolo:
Ripensare psicoanalisi e letteratura
Autore:
Benjamin e Thomas Ogden
Traduzione:
C. Casnati, B. Doninelli
Editore:
CIS Editore
anno di pubblicazione: 2013
ISBN: 978-88-85758-84-1
Recensione di Francesco Piermattei
Tra i vari meriti di questo libro credo che sicuramente due ne debbano essere messi in evidenza: il primo è quello di descrivere con attenzione quello che è il metodo di T. Ogden di approccio alla letteratura, partendo dai vertici dell’intersoggettività e della teoria del terzo analitico, il secondo quello di risottolineare l’importanza fondamentale che la narrazione letteraria ha per la psicoanalisi, attraverso il tentativo di aprire una discussione con il mondo della letteratura e della critica letteraria sulla differenza tra il tipo di contributi che possono dare gli psicoanalisti rispetto ai letterati per la comprensione e fruizione dei testi letterari.
Un consiglio prima di accingersi alla lettura di questo lavoro è quello di tenerne ben presente la struttura che è piuttosto eterogenea e che potrebbe comunicare un certo senso di dispersività. Il libro consiste infatti nell’analisi e nel confronto di tre preesistenti saggi già pubblicati dagli autori: il saggio di Thomas Ogden relativo ad una poesia di Robert Frost “Never Again Would Birds’Song Be The Same” ( Mai più il canto degli uccelli sarebbe stato lo stesso)1 , un altro saggio di Thomas Ogden su “Un artista del digiuno” di Franz Kafka ed un saggio di Benjamin Ogden su “Lo scrittore fantasma” di P. Roth. I tre saggi si trovano in appendice al libro, i due racconti di Roth e Kafka ovviamente no. Non credo si possa fare a meno di leggere i testi letterari ed i relativi saggi prima dei tre capitoli su di essi che compongono il libro vero e proprio.
Come gli autori ci dicono nell’introduzione, il libro è il risultato di parecchi lunghi colloqui tra i due autori: Thomas Ogden, lo psicoanalista che tutti conosciamo e Benjamin Ogden, suo figlio, studioso di letteratura ed autore di diversi saggi. Le differenti opinioni degli autori, a detta degli stessi, non sempre sono state indenni da conflittualità, pur risultando reciprocamente stimolanti.
L’ipotesi centrale del libro è quella suggerita dal titolo, è cioè che le diverse competenze analitica e letteraria possano essere riportate ad una diversa proposizione sensoriale, l’udito per l’analista e la vista per il critico. Da qui si procede nel tentativo di elaborare una sistematizzazione dei differenti approcci.
La prima domanda che B. Hogden si pone è: perché i due scritti di T. Hogden su Frost e su Kafka sono del tutto diversi da ciò che si può trovare pubblicato su una rivista accademica letteraria? E come mai, pur non facendo ricorso a categorie psicoanalitiche sembravano comunque molto psicoanalitici? Questa domanda permette subito di entrare nel suggestivo modo (intersoggettivo) di leggere psicoanaliticamente la letteratura di T. Hogden. Egli evita accuratamente di fare riferimento a concetti teorici o clinici psicoanalitici ed analizza anche poco i contenuti della prosa. Si concentra invece sul “suono” e sulla “voce” letteraria dello scritto che, secondo gli autori: “ha la sua origine, crediamo, nel come gli analisti praticanti sono in sintonia con la voce del paziente e con la propria in un modo che è unico per la pratica della psicoanalisi”. Cito ancora: “Nella situazione analitica analista e paziente sono impegnati nello sforzo di parlare l’uno all’altro in un modo che sia adeguato al compito di creare/trasmettere un senso di ciò che per il paziente significa essere vivo….Il linguaggio non è semplicemente un mezzo per l’espressione del sé esso è parte integrante della creazione del sé”. Credo che quando Ogden parla di “linguaggio” o “suono” o “voce” che trasmettono stati d’animo o senso delle cose intenda, anche se non lo esplicita mai chiaramente, l’insieme di toni, timbri, volume, pause, cadenze dei contenuti del discorso che comunicano l’intensità emotiva dei concetti oltre le parole stesse e creano un insieme che è sempre unico e singolare di ogni comunicazione. Il cercare un contatto sintonizzandosi con tutto questo insieme, sembra ciò che Ogden definisce “pensare a” o “essere con” il paziente, insomma il suo modo di vivere insieme il comune momento presente, cercando di costruire insieme nuovi sensi e significati.
Un esempio molto bello è quello del paziente “signor C”, il quale dopo tanta sofferenza porta un sogno finalmente elaborativo di leggerezza e serenità rispetto al quale Ogden risponde, con una certa enfasi: “che sogno meraviglioso è stato questo”, privilegiando la sottolineatura dell’amore e della bellezza che il paziente aveva sperimentato e riportato nell’analisi, piuttosto che una dimensione interpretativa delle dinamiche oniriche. Ed è questo stesso tipo di atteggiamento che Ogden cerca di utilizzare nei commenti letterari. I due autori sono d’accordo infatti che spesso, in psicoanalisi come in critica letteraria, si usano “concetti psicoanalitici per decodificare o spiegare un testo in una modalità prevedibile e stereotipata, riducendo così la psicoanalisi ad un insieme di applicazioni inflessibili”.
Nella poesia di Frost2 T. Hogden cerca di entrare intimamente nel vissuto del protagonista della poesia così come in quello del narratore, cercando di rispecchiarcisi, dandoci così un esempio “poetico” di quello che dovrebbe essere la clinica psicoanalitica secondo lui: far sentire all’altro riflessi indelebili della sua voce nella propria! Proprio come gli uccelli del giardino dell’Eden, avendo ascoltato tutto il giorno la voce di Eva avevano internalizzato (sovrasuono) il suono della sua voce nel loro canto. Solo a questo punto l’autore si permette anche una valutazione “interpretativa” del bisogno del poeta che sembra quello di preservare nelle sue parole le voci delle persone che ha amato, delle poesie che l’hanno preceduto, le voci ancestrali dalle quali egli stesso proviene, interpretando chiaramente infine anche un’angoscia di morte : ”è impossibile non udire il desiderio inespresso del narratore che la sua propria voce possa trovare una creatura vivente in cui persistere dopo la morte”.
Così come spesso succede agli analisti che, mentre leggono qualcosa o vivono un’esperienza vanno al pensiero dei loro pazienti, Ogden torna al sig. C. pensando che la sua frase “che sogno meraviglioso è stato questo” possa avere aggiunto un sovrasuono al pensiero del sig. C. che non andrà mai perso. ( cosa che, in genere, probabilmente, conforta l’analista sia per il fatto che il paziente termina l’analisi con una buona introiezione di un oggetto protettivo analitico che per il fatto di sentirsi esso stesso di persistere ed esistere nel tempo nella mente del paziente dopo la propria “morte –termine dell’analisi”).
Ritornando al problema dell’applicazione rigida di concetti teorici alla letteratura bisogna comunque evidenziare che non si sta parlando di una condizione empatica contrapposta alle teorie come sembrerebbe in un primo momento, ma di una condizione di contatto emotivo necessariamente propedeutica alla definizione interpretativa, che può diventare stereotipata e saturante senza questo passaggio. Questo punto credo non sia stato sufficientemente chiarito nel libro. Nel caso del Sig. C la frase “che sogno meraviglioso è stato questo” è proposta dopo tanto lavoro clinico -interpretativo e non- con il paziente ed è, in fondo, una efficace ricapitolazione di questo lavoro analitico piuttosto che una estetica forma di ammirazione seduttiva per il paziente. In fondo la potremmo considerare una meta-interpretazione, cioè un’interpretazione che ricapitola, in poche parole di grande efficacia, tutte quelle precedenti. Sicuramente ogden non l’avrebbe mai proposta per un sogno portato in prima seduta. Quindi il problema non dovrebbe essere l’utilizzare un contatto emozionale in contrapposizione a concetti teorici per comprendere il testo, ma il come, il quando ed in che modo tali concetti teorici sono proposti, e se sono in sintonia o meno con il timbro emotivo del testo. Questo punto, del resto, è molto importante più in generale perché è il nodo in cui il modello intersoggettivo può elaborare la possibilità di non essere scambiato, da un pensiero più superficiale, per una semplice chiacchierata basata sull’empatia e sulle capacità affettive dell’analista.
In effetti, nei capitoli successivi, T. Ogden sottolinea che questo tipo di posizione d’ascolto ha profondi riferimenti con la teoria psicoanalitica alla quale egli fa riferimento, come il concetto bioniano di inconscio, di funzione sognante, il fatto che occorrono due persone attraverso la reverie per attivare la capacità di pensiero, le origini sensoriali del pensiero, le teorie del campo, fino al concetto di terzo analitico di Ogden stesso.
Lo stesso tipo di analisi lo ritroviamo nello scritto su “Un artista del digiuno” di Kafka. T. Hogden riporta la meraviglia di un passaggio emotivo notevole da una condizione tipica nei romanzi di Kafka in cui regna la contrazione del tempo e la follia (del digiuno professionale e della sua grande rappresentazione) ad una condizione infine umana, recuperata attraverso l’unico momento dialogico del racconto, tra il protagonista digiunatore ed un inserviente, che permette al primo di accedere infine ad un nucleo di prima vera consapevolezza di sé.
L’approccio al testo dei critici letterari è invece, secondo gli autori, basato “sull’uso del critico di vari metodi di analisi testuale – che noi chiamiamo l”occhio del critico”. Per analisi testuale B. Hogden intende lo studio delle strutture di frasi, paragrafi e dialogo; sintassi, grammatica e punteggiatura; così come genere, contesto letterario e storico e la storia della stessa analisi formale. Non è chiaro come mai l’autore sembri non considerare approcci utili, oltre a quello della stilistica stilistica, quelli filologici, ideologici, antropologici e sociologici3.
Egli analizza con molta accuratezza ed intuito le frasi iniziali de “Lo scrittore fantasma” osservando come la frase di apertura del romanzo è immediatamente “intrusa” da un’altra frase inserita tra due “Audaci trattini4”, che sembra dare un senso di irruenza di una storia dentro l’altra, dell’irruenza del vissuto del protagonista nella storia stessa, il quale, secondo l’autore, cerca di crearsi il suo spazio in competizione con la storia narrata. “L’inciso non è a parte, è un secondo inizio uguale al primo in ogni suo aspetto”. B. Hogden riporta ciò a quella che definisce “ una tensione ribelle tra narrazione e vita”, che, nella seconda parte del suo scritto, viene poi riportata alla tensione tra Zukerman (il protagonista) e suo padre, alla conflittualità tra il regolarsi sul pensiero paterno e il permettere di esprimersi alla propria vitalità. In fondo, dice l’autore, la struttura delle frasi sembrerebbe riportare ad una metanarrazione, una storia nella storia, come se la struttura sintattica e grammaticale, diventasse metafora e raccontasse essa stessa una storia parallela. Questo, per il critico letterario, è il suo ambito e rivendica la peculiarità dello strumento sintattico utilizzato, basato sull’analisi del frammento, sulla grammatica e sulla costruzione delle frasi, per esempio l’analisi dell’utilizzo degli “audaci trattini”, come uno strumento specifico del letterato e non dell’analista.
Nelle conclusioni, in poche righe, gli autori provano a parlare anche della natura della loro collaborazione, del come hanno cercato di costruire un “noi” lavorativo, consci del fatto che la loro collaborazione avesse anche una radice di “vivace scontro di due ordini di idee” e che tale scontro fosse anche ulteriormente “metanarrato” dalla scelta stessa degli scritti che esprimono l’oscillazione tra la necessità di un padre di lasciare tracce della propria voce ai posteri e quella di un figlio “Zukermann” di prendere qualcosa da quella voce ma salvando il proprio spazio personale attraverso una chiara differenziazione identitaria.
E’ sicuramente molto utile che gli autori ci abbiano sottoposto l’indiscussa esistenza di questi vertici di lettura e l’utilità del distinguerli e denotarli per avere una pluralità di accesso al testo, ma dovremmo anche chiederci: sono poi competenze così separabili ed identificabili in identità professionali diverse? In fondo ascoltare il suono è ciò che fa anche chi si occupa della sintassi dello scritto, perché mentre vediamo “sensorialmente” il testo quando leggiamo, vediamo anche con gli occhi della mente i protagonisti che si muovono e parlano ed è un po’ come se udissimo le loro parole. Allo stesso modo, percepire una frase “intrusa” sintatticamente è necessariamente anche una competenza uditiva degli analisti, che, quando è proposta da un loro paziente, dovrebbero sicuramente notarla. Inoltre nel loro lavoro gli analisti usano molto la lettura, sia nelle comunicazioni scientifiche che nelle discussioni cliniche attraverso protocolli e quindi anche la “competenza” visiva di ciò che comunicano i loro pazienti.
Potremmo quindi anche pensare, un po’ provocatoriamente, che potrebbe essere altrettanto utile invertire questa prospettiva della differenziazione delle competenze partendo invece dall’accettazione di una bellissima “area comune” seppure parziale, delle due aree di competenze che è l’area della ricerca di emozioni profonde, impreviste, nascoste nei meandri dell’animo umano se vogliamo usare un linguaggio letterario o dell’inconscio se usiamo un linguaggio psicoanalitico.
Chiaramente tutto ciò fatte salve quelle che poi sono le competenze specifiche e non comuni delle due professioni, quella clinica degli psicoanalisti e quella culturale letteraria degli scrittori. E’ forse proprio questa area comune, questa parziale inseparabilità, che spiega l’intensa relazione tra psicoanalisi e letteratura e la loro reciproca influenza, in fondo proprio come la relazione tra la voce di Eva ed il canto degli uccelli…. In questo senso, così come molti analisti possono avere una competenza “narrativa”, molti scrittori (in fondo tutti quelli che riescono ad emozionarci e sorprenderci) possono avere un intuito che possiamo definire psicoanalitico, quando scavano i mondi in ombra dei loro personaggi che, a loro volta, illuminano poi i mondi oscuri ed interni di tutti noi lettori. Intuito dal quale gli psicoanalisti hanno sempre attinto e, ci auguriamo, continuino a farlo.
NOTE
1 Per la poesia si consiglia di leggerla sia in inglese che in italiano in quanto i “suoni”, leitmotiv dell’’analisi di Ogden, cambiano considerevolmente nella traduzione (per esempio le rime sono intraducibili) e rendono difficile la comprensione del discorso dell’autore. Inoltre la traduzione stessa non è delle migliori (p. es. i due primi verbi della poesia sono al condizionale in inglese ma tradotti in indicativo presente in italiano…).
2 Avrebbe dichiarato ed avrebbe lui stesso creduto / Che gli uccelli là in tutto il giardino intorno / Avendo udito tutto il giorno la voce di Eva / Avevano aggiunto al loro proprio un sovrasuono / Il senso del suo tono ma senza le parole./ Certo solo una così delicata eloquenza avrebbe potuto avere un’influenza sugli uccelli / Quando un riso o un richiamo la portava in alto. / Sia come sia ella era nel loro canto / inoltre la sua voce sulle loro voci incrociata / Così a lungo nel bosco era indugiata / Che mai probabilmente sarebbe andata perduta. / Il canto degli uccelli non sarebbe mai più stato lo stesso / E per far questo agli uccelli che ella era venuta
3 F. Capello: “Psicoanalisi e critica letteraria: dall’applicazione alla conversazione” Rivista di psicoanalisi 2014/2
4 “Erano le ultime ore di luce di un pomeriggio di dicembre di più di vent’anni fa – avevo 23 anni, stavo scrivendo e pubblicando i miei primi racconti, e come gli eroi di tanti Bildundsroman che mi avevano preceduto, già contemplavo il mio stesso imponente Bildungsroman – quando raggiunsi il nascondiglio dove dovevo incontrare il grand’uomo”. (Roth, 1979)
Roma 20/1/2017