Titolo della pubblicazione: Trauma e perdono
Sottotitolo: Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale
Autore: Clara Mucci
Editore: Raffaello Cortina Editore
anno di pubblicazione: 2014
ISBN: 9788860306760
Recensione di Ermelinda Di Ianni
Sono due i tipi di trauma analizzati e approfonditi nel libro Trauma e perdono (Clara Mucci, Raffaello Cortina Editore, 2014): il trauma relazionale precoce, causato da una situazione traumatica continuativa nel tempo, e i traumi massivi, come i genocidi e la Shoah. Tali traumi sono accomunati dal fatto che avvengono per responsabilità umana ed hanno conseguenze più gravi dei traumi dovuti a disastri naturali. L’obiettivo del testo, articolato in quattro sezioni, è mostrare cosa accade nell’individuo, nelle generazioni successive e nella società a seguito di questi tipi di trauma e il vertice da cui l’autrice sviluppa questi temi è quello della psicoanalisi relazionale, in cui è considerato primario il bisogno di relazione e sicurezza; e l’effetto del trauma è la rottura del legame io-tu. In questo contesto viene valorizzato il lavoro di Ferenczi: quest’ultimo, a differenza di Freud che del trauma considerava primariamente l’elemento fantasmatico, era molto colpito dai traumi reali di cui erano rimasti vittima molti suoi pazienti, in particolare nelle situazioni di abuso. Il bambino aggredito sessualmente “rende l’anima”, dice Ferenczi, reagisce identificandosi per paura con l’aggressore e introiettandolo. Si produce così una confusione tra sé e l’altro e ciò implica l’impossibilità di accertare la verità. Il bambino sopravvive, sì, ma solo fisicamente. Compito dell’analisi è, secondo Ferenczi, lavorare per recuperare il ricordo, confinato in una dimensione scissa, per portarlo in uno spazio empatico dove il reale può trovare il suo posto e giungere alla rappresentazione verbale. L’evento traumatico sembra avere le proprietà di un oggetto straniero non assorbito, che può erompere parzialmente nei sogni o attraverso flashback e immagini che ritornano ossessivamente, ma sganciate dal contesto. L’Autrice sostiene che, nel caso di pazienti gravemente traumatizzati, la questione teorica della verità fantasmatica deve recedere sullo sfondo e la verità storica va ricostruita attentamente e con tatto, con tutti i correlati fisici, entro l’appropriata cornice temporale e con un procedimento che avviene per cicli. Nel trauma i legami libidici con le connessioni associative, così come con l’oggetto interno e se stessi, sono sospesi ed è per questo che non è possibile rappresentarli a se stessi e poi raccontare la propria storia. La vittima, per difendersi dagli orrori della mancanza di oggetto, si è identificata con l’unico oggetto disponibile, il persecutore, un oggetto cattivo. La ricostruzione del fatto reale, comunque, non può aver luogo senza una ricostruzione del legame emotivo dentro la relazione con un altro essere che permette l’integrazione degli affetti e dei significati connessi all’evento traumatico. L’alleanza tra terapeuta e paziente, presupposto per questo tipo di lavoro, è più difficile da stabilire se il paziente ha costruito con le figure parentali un attaccamento insicuro o disorganizzato. Quindi un nuovo modello di relazione con l’altro deve essere sperimentato nel rapporto terapeutico, anzitutto a livello preverbale. Si è accennato prima alla dissociazione: quando la mente fronteggia l’orrore, il funzionamento psichico crolla, le funzioni affettive e cognitive sono devastate, insieme alla capacità di simbolizzare l’esperienza. La mente ricorre ai processi dissociativi come meccanismi di chiusura per proteggere la coscienza dall’inondazione di angoscia e da dolori insopportabili. Ad esempio, nel trauma relazionale infantile, il bambino si mette in una posizione di ritiro (“rende l’anima”) che lo fa diventare invisibile, in una specie di passività ipometabolica dove le funzioni fisiologiche rallentano: studi recenti mostrano come in questo quadro si evidenzino alterazioni dell’emisfero destro del cervello. Quest’ultimo è considerato come il substrato biologico dell’inconscio umano ed è implicato sia nella regolazione degli affetti che nel mantenimento di un coerente senso del sé e del proprio corpo. Stati dissociativi possono ritornare in terapia, quando il contatto con un altro potenzialmente buono e disponibile può essere all’inizio vissuto con ansia per il timore di una perdita o con avversione e paura, distacco e diffidenza. Per questo al terapeuta sono necessari estremo tatto, empatia e massima cautela circa i tempi del trattamento. L’Autrice ricorda che, come ormai dimostrato da vari studi, è la comunicazione tra i due emisferi destri – quindi una comunicazione preverbale che passa per la voce, lo sguardo, le posture – ad essere essenziale per giungere a stabilire un canale affettivo per il contenimento delle emozioni negative in un ambiente prevedibile e rassicurante. La posizione del terapeuta in questa fase, lungi dall’essere interpretativa, è quella di una ricettività non intrusiva, come l’acqua che sostiene il nuotatore nella felice metafora di Balint. Non più imprigionato nel mondo senza parole del trauma e posto in un ambiente dove c’è un altro empaticamente disponibile all’ascolto, il paziente scopre che esiste un linguaggio per la propria esperienza. In questa fase può essere addirittura utile ed opportuno dare informazioni al paziente su cosa aspettarsi in termini di effetti e sintomi o parlare dell’utilità dei farmaci per ridurre l’ansia, che può essere massiccia. Ciò che si richiede inizialmente nella terapia è la ristrutturazione del legame tra sé e l’altro, mentre lo stato traumatico, che ancora non può essere rappresentato, non verrebbe modificato dall’interpretazione. Superata la fase iniziale, gli enactment rappresentano un primo passo per rendere pensabili le dinamiche del passato. L’enactment è un’azione che si esprime in un evento diadico e può assumere varie forme (ad esempio modificazioni del setting, scambi di gesti affettuosi), un fenomeno intrapsichico recitato sul piano interpersonale. Il terapeuta rivive gli stati traumatici del paziente per poi fungere da regolatore emotivo. Se il terapeuta si spaventa e si difende, l’enactment rimane una ripetizione cieca di una relazione oggettuale patologica. Il lavoro si basa su cicli di rottura e riparazione del legame di attaccamento entro una cornice in cui aumenta la sicurezza personale. L’obiettivo è quello di ricostruire l’interezza degli eventi vissuti (memorie traumatiche), di associare le componenti frammentate (emotiva, sensoriale, motoria, cinestesica, cognitiva) e permetterne l’integrazione nella narrazione autobiografica del paziente. L’integrazione (della perdita, del trauma, del dolore) e un nuovo senso di riparazione e ricostruzione vengono dalle parole usate per dare un nome ai vissuti corporei ed emotivi e dai sogni, nonché dalle esperienze fisiche di recuperata vitalità. La mente costruisce modelli a partire dalla sua esperienza. Il nuovo evento, e quindi anche l’esperienza psicoterapeutica, ha il potenziale di provocare una risposta, la ripetizione di una risposta dissociativa nei pazienti traumatizzati, o di riscrivere una traccia diversa nell’esperienza di vita. I sogni, rispetto ai ricordi traumatici che irrompono come frammenti di immagini, colori o suoni, rappresentano già un primo passo verso la simbolizzazione. Quest’ultima, però, non può avere luogo senza un dialogo interno o un processo comunicativo e questo legame è proprio quello che il trauma ha distrutto. Si arriva a conoscere la propria storia solo con il dirla a se stessi, a un “tu” interno. Ma questo nel paziente traumatizzato può accadere solo se si ripristina il legame comunicativo con l’altro, testimone empatico a cui consegnare la propria storia. Nel traumatizzato, a livello intrapsichico, non c’è più un altro interno su cui contare. Questa disperazione interna diventa un’incapacità a comunicare con gli altri e anche con se stessi per riflettere sulla propria esperienza. In sostanza, se non c’è più un altro a cui dire “tu”, nella speranza di essere ascoltato, non si possono raccontare le atrocità del trauma neppure a se stessi e, quando la propria storia è abolita, cessa di esistere anche la propria identità. La testimonianza contribuisce a rompere questo patto con il silenzio, all’interno e all’esterno del sopravvissuto al trauma, ed è anche un processo, un modo per far fronte alla perdita. Come l’analisi riuscita equivale ad una nascita, così nella testimonianza il sopravvissuto può tornare dall’esilio in cui il trauma lo aveva confinato. È ancora questo il portato per sempre trasgressivo della psicoanalisi come pratica di verità.Dopo aver approfondito il tema della terapia con i pazienti traumatizzati, l’Autrice si occupa della trasmissione intergenerazionale del trauma, riportando gli esiti di molti studi sulla Shoah, che, in quanto evento traumatico abbastanza lontano nel tempo, consente di poter osservare gli effetti del trauma fino alla terza generazione. Già nel 1913 in Totem e tabù Freud parlava di ereditarietà di alcune disposizioni psichiche scrivendo che “può essere riuscito a generazioni successive di fare propria l’eredità emotiva delle generazioni precedenti”. Nella prima generazione di sopravvissuti alla Shoah, il sopravvissuto deve fare i conti con alcune tematiche psicologiche: lo stigma della morte, che implica l’intrusione di un’immagine di minaccia alla vita in grado di rompere il necessario senso di invulnerabilità magica che i vivi portano dentro di sé; la colpa di essere vivi al posto di un altro e nel contempo l’insopportabile gioia ed eccitazione per il fatto di essere sopravvissuti; l’ottundimento psichico ed affettivo che può giungere fino alla forma estrema del ritiro psichico; le difficoltà nelle relazioni dovute al tentativo di proteggersi da nuove perdite. L’interessante studio di H. Kristal, egli stesso un sopravvissuto, sviluppatosi da una ricerca su pazienti traumatizzati con follow-up a distanza di 10 anni, ha evidenziato che i disturbi rimangono sempre gli stessi: depressione, disturbi del sonno, sogni traumatici ricorrenti, dolore e ansia cronici. All’arrivo dell’età anziana, per i sopravvissuti subentrano altri problemi: la vecchiaia impone che uno accetti se stesso e il proprio passato invece che continuare a rifiutarlo con rabbia. Se non si è potuto elaborare il lutto, se si permane in un quadro psichico caratterizzato da alessitimia e anedonia, i sopravvissuti tenderanno ad un invecchiamento precoce e si registrano tassi di morte più alti della media. La dolorosa separazione dagli oggetti perduti è ciò che la seconda generazione si incarica di prendere su di sé. Quindi nei membri della seconda generazione che chiedono aiuto possono manifestarsi disturbi come il falso sé, disturbi narcisistici, sindromi borderline, patologie schizoidi; oppure vi è la scelta di una professione di aiuto. Gli studi sulla seconda generazione hanno mostrato che i figli adolescenti di sopravvissuti alla Shoah mostravano un bisogno eccessivo di reprimere l’aggressività e il senso di ribellione tipici di questa fase ed assumono un ruolo volto a ripagare i genitori delle perdite precedenti. Si può ipotizzare che la traumatizzazione della seconda generazione sia dovuta al fatto che la mancanza di sensazioni della madre rende difficile svolgere i compiti materni con sensibilità e sollecitudine; sarà quindi il bambino a cercare di empatizzare con lei con notevole stress psichico e fisico. Questi figli sono i cosiddetti “figli della sostituzione”: ci sarà sempre qualcuno che vede in loro qualcun altro. È una forma di ripetizione che priva il figlio della libertà e lo condanna ad una sorta di destino. Alcuni disturbi e sintomi che sembravano psicotici possono essere letti come parti di storie cancellate dai genitori. Si rileva inoltre una sorta di concretismo del linguaggio e la mancanza di uso della fantasia: le condizioni atroci dei campi di concentramento hanno danneggiato la capacità dell’Io di pensare simbolicamente e metaforicamente, generando il concretismo senza tempo nel funzionamento psichico della seconda generazione. Nella terapia si promuoverà un passaggio dal concretismo al funzionamento metaforico passando per una fase di comune accettazione della realtà dell’Olocausto. I figli si trovano a reagire inconsapevolmente ad uno scenario che appartiene alla storia familiare senza avervi mai preso parte e i sintomi sono eco del “discorso” del genitore, anche quando questo discorso è fatto di silenzio su quanto vissuto. Quando questi figli incontrano traumi nelle loro vite, tendono a reagire secondo immagini interiori, minacce mentali e terrori che appartengono ad un passato non loro. Quando si attivano questi enactment, il terapeuta può cogliere in queste reazioni un’opportunità: la momentanea disregolazione e rottura tra paziente e terapeuta, se seguita dalla riparazione, può rappresentare l’occasione per un movimento in avanti della cura. Il figlio del sopravvissuto, quindi, grazie al suo ruolo di ascoltatore empatico, soffre una traumatizzazione vicaria. Perfino i sogni del paziente di seconda generazione (i figli che sognano i sogni dei propri genitori) sono da considerare come una riattivazione per via fantasmatica del trauma stesso e al contempo, in quanto sogni, manifestano forme di rielaborazione del trauma. La difficoltà in terapia consiste nel districare il genitore interno dal figlio. La traccia dell’esperienza traumatica nel figlio può essere mediata dall’immaginazione e pertanto divenire accessibile all’interpretazione psicoanalitica. L’Autrice riporta anche gli studi sugli effetti della Shoah sulla terza generazione. Anche se i risultati dei vari studi non concordano, si può comunque ipotizzare che, mentre la seconda generazione subisce una traumatizzazione fantasmatica, nella terza, qualora non vi sia stata risoluzione in precedenza, l’elaborazione del trauma è forclusa e possono manifestarsi sintomi più gravi. Fonagy, nella sua ricerca, aggiunge un altro elemento interessante, collegando la traumatizzazione con l’attaccamento: il caregiver che presenta un lutto non risolto può avere problemi nello stabilire una buona relazione con il bambino e causare un attaccamento disorganizzato. Quest’ultimo si esprime in un comportamento evitante ed ipercontrollante e le fantasie traumatiche inconsce trasmesse alla terza generazione formano un nucleo dissociato. La tecnica appropriata consiste nel rendere accessibili e poi esprimibili affetti e sentimenti (disperatamente dissociati) nella cornice calda e rassicurante del setting dove poter costruire una nuova relazione di attaccamento. Al termine del libro, l’Autrice approfondisce il tema delle risorse che consentono di andare “al di là del trauma”. Partendo dal presupposto che la forza del legame sia ciò che protegge il soggetto dal perire psichicamente in un’esperienza estrema come il trauma, la Mucci sostiene che il recupero ha a che fare con la ricostruzione del legame interno tra sé e l’altro. La relazionalità (connectedness), quindi la possibilità di fare appello ad un “noi”, l’empatia e l’avere consolidato uno stile di attaccamento sicuro rendono possibile tale percorso. Viene inserito anche lo spinoso concetto del perdono, da intendersi però come il segno che un profondo lavoro sul sé è stato compiuto, il lutto è stato elaborato, profondi livelli di riparazione sono stati effettuati (integrazione delle proprie parti interne scisse tra vittima e persecutore), l’apertura e la speranza del soggetto nel futuro e nell’umanità in generale sono state ripristinate e sono stati abbandonati i desideri di vendetta e rivendicazione. Il perdono è la prova che il sé è andato oltre il tormento dell’essere in balia del persecutore. Il perdono di cui parla l’Autrice ha sì una dimensione intersoggettiva, ma non è richiesta, necessaria e a volte nemmeno pensabile la relazione con il colpevole. Inoltre non cancella la consapevolezza del male subito, ma libera la vittima dal legame con il passato. In estrema sintesi, dopo la ricostruzione del legame con l’altro, il passo successivo per il paziente è mettere in parole la propria esperienza, poi avviene la riconnessione di affetti inconsci e dissociati, in una fase che conduce dall’intrapsichico al relazionale, grazie ad un terapeuta empaticamente presente. Al contempo, il paziente imparerà a lasciar andare il piacere sadico del rimanere ancorato alla propria rabbia e all’esercizio illusorio del controllo sull’altro (persecutore o persecutore internalizzato), superando un senso di impotenza che sarà rimpiazzato da un senso di libera volontà e di agency.